25 novembre 2017
Massimo Marcelli, designer torinese e marchigiano di adozione. Per creare lui ama guardarsi attorno, cercando di individuare le esigenze delle persone, i loro problemi. «Ad esempio Spoon, il mio cucchiaio che rileva i pesticidi, mi è stato ispirato dalla visione di una trasmissione di Report sulle sofisticazioni alimentari. Certo, ho dovuto cercare una tecnologia in grado di rilevare i pesticidi, e quindi mi sono dovuto rivolgere a un laboratorio di ricerca. Ma una volta era l’azienda a proporti la tecnologia, a dirti “io ho questo brevetto, creami qualcosa che lo utilizzi”; oggi è il designer che traina, e che combina i vari fattori per creare un prodotto utile».
Parlando del rapporto tra designer e aziende, Marcelli tocca un tema importante. Perché in un paese come il nostro, profondamente manifatturiero, con un tessuto economico composto di innumerevoli PMI (e le PMI non possono permettersi un centro stile, proprio come non hanno risorse per fare R&D in house), il dialogo tra design e secondario non è solo auspicabile: è fondamentale.
«Il problema è che molte piccole aziende non hanno cultura del design, o magari ce l’hanno ma non hanno mai incontrato il designer giusto – dice Marcelli –. Ultimamente ho avuto a che fare con un’impresa dell’Emilia Romagna, un’impresa importante, che però non aveva mai lavorato con un designer… Io mi sono attivato per spiegargli che con un designer si può migliorare il prodotto non solo dal punto di vista estetico, ma anche concettuale».
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